“Pensavo fossi fragile” Autobiografie e Trasformazioni

Il mio nome è memoria. Sono la vostra più preziosa amica. Sono la buca in cui non ricadere e la strada sbagliata da non imboccare la seconda volta. Posso essere la vostra più temibile nemica. Perché sono l’occhio che fotografa la vostra vergogna nel buio di una stanza.

Alessandro GHEBREIGZIABIHER (“Il dono sella diversità”)

Quando si scrive di sé, facendo un lavoro autobiografico, accade qualcosa di speciale. Ognuno entra in contatto con il proprio linguaggio, costruendo il proprio personale linguaggio interiore, che sia fatto anche delle avventure vissute, dei ricordi più delicati, dell’inflessione della voce di una persona cara, di frasi ricorrenti nel glossario di famiglia. Dentro ci sono infinità di cose, i gesti di una nonna che faceva biscotti, il profumo di quei biscotti (che raramente si torna ad incontrare fuori da quella speciale cucina), il suono del dialetto parlato in casa. Ci si accorge presto che, nel solo narrare qualcosa di accaduto, la storia cambia, arricchendosi a contatto con la realtà che vive al di fuori del ricordo, nel presente.

Si realizza un vero e propriolinguaggio per sé” (Vygotskij) che parla a se stesso e quindi si nutre di una speciale libertà, di forma e parole, senza vincoli a decidere o frenare il tutto, pur calato in quella che è la vita del narratore in quel momento. 

Un aspetto che stava molto a cuore ai narratori incontrati durante l’esperienza di Scrittura Nuda è il timore per la fragilità delle memorie narrate. Prima di scrivere si ha molto spesso paura di non saper riportare quanto si sente di dovere. In fase preparatoria,questo aspetto veniva palesato, un timore ben specifico rispetto ai ricordi che si è deciso di scrivere. Un timore che portava con sé una delicatezza che aveva una particolarità. La paura era precedente il racconto. Significa che si palesava nel giro di domande fatto prima di tuffarsi nell’esercizio, una serie di punti interrogativi che chiedevano quanto si sarebbe stati in grado di raccontare davvero l’avvenimento, il momento, l’episodio che si voleva mettere su carta nei minuti a disposizione. Una fragilità che era lì da tempo e che aveva sempre impedito di affrontare quanto si voleva raccontare, ancor prima di farlo, anzi era il motivo per cui ci si impediva di farlo, il feroce “non sarò capace” che ci trattiene mille volte, nella vita a 360°, dal fare quanto invece merita di essere fatto.

In questo il gruppo è di grande aiuto, perché le timidezze, incontrandosi, si scoprono coraggiose e superato il timore anticipatorio, parola dopo parola, la storia arrivava. Sapere che ci sarà un ascolto, rende maggiormente piacevole scrivere, raccontarsi. 

Cosa accade, quindi, alla fragilità che precede, spesso accompagnata dalla paura? Che viene trasformata nella distanza che segue, con una riscoperta forza. Scrivendo, chi narra, lasciandosi andare alle emozioni, accogliendo i particolari che si presentano alla mente, finisce con il definire una storia coerente e chiara, comprensibile e piena di sfumature che, messe su carta, rendono piccola la grande fragilità che prima spaventava, così piccola che è possibile mettersela in tasca e andare avanti fischiettando. Si innesca una distanza buona che permette di descrivere quel particolare piccolo momento della vita, in maniera rispettosa, nuova, arricchita da nuovi particolari che non si erano notati prima.

Una volta organizzati, gli eventi sono spesso più piccoli e facili da affrontare, anche se un evento non ha senso, sul piano psicologico esso si completa.

Pennebaker (1990, “Scrivi cosa ti dice il cuore”)

Chi scrive ristruttura il racconto e facendolo ne disfa la fragilità proprio perché organizza la storia che lo vede protagonista, diventandone “padrone”. Scrivere la propria storia non significa solo portare fuori quanto era tenuto dentro, liberare le parole prigioniere. Significa riscrivere, dare un nuovo senso che trasforma.  La fragilità, spesso accompagnata dalla confusione che mischia tutto, una nebbia pericolosa e vischiosa, si dissolve, anche quello che sembrava non avere senso acquisisce significato.

Qualcuno ci ha scritto “Pensavo fossi fragile” siamo felici che possa aver portato via con sé qualcosa di nuovo, non la semplice consapevolezza degli eventi, ma un nuovo stimolo interiore a leggerli dentro un nuovo racconto che potrà, se vorrà, diventare l’inizio di qualcosa di simile a quello che chiamiamo cambiamento.

Un pensiero su ““Pensavo fossi fragile” Autobiografie e Trasformazioni

  1. Lara Mallen ha detto:

    Scrivere aiuta a prendere le distanze da ciò che ci fa paura. Quando viviamo un momento di difficoltà, angoscia o tristezza, è bene prendere carta e penna e lasciare liberi cervello e cuore di esprimersi. “Non si vede mai bene ciò che è troppo vicino agli occhi” ha detto qualcuno, ed è proprio lo scopo della scrittura: avere una visione piú ampia, d’insieme, per scoprire che anche nel malessere ci sono spiragli di luce, ed è da quelli che traiamo la nostra forza.
    Inoltre è bello tornare a rileggerlo a distanza di tempo, per vedere quanto abbiamo combattuto e infine vinto i nostri mostri interiori.
    Credo che la scrittura possa rientrare a pieno titolo nella meditazione: ti manda in uno stato definito “flow” in cui esci dal tempo per entrare in una nuova dimensione di galleggiamento tra realtá e inconscio; nuoti liberamente in questo stato per tutto il tempo necessario, per poi tornare lentamente alla realtá.
    Questo è ciò che succede a me.

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